Il Napoli della mia infanzia è stato il Napoli di Maradona.
Del calcio conoscevo poco, giusto l’essenziale. Nella mia mente di bambino il tutto si riduceva ad una infinita battaglia tra i “buoni”, i giocatori azzurri, ed i “cattivi”, che, pur tendendo a ruotare, nella maggior parte dei casi erano quelli del Milan.
La partita si sentiva per radio: la domenica, dopo pranzo, con ancora l’odore del caffè nell’aria, mio padre poggiava sul tavolo della cucina uno stereo portatile rosso e ci mettevamo in religioso ascolto.
Per orientarmi in quelle oscure cronache mi basavo soprattutto sul tono di voce del radiocronista: più diventava elevato, più era alta la probabilità che una nostra rete fosse imminente; viceversa, improvvisi cali di voce erano indice che stavamo correndo un serio pericolo.
Ad ogni gol del Napoli, esultavo sempre alla stessa maniera: iniziavo a correre per la casa gridando a squarciagola il risultato, tra gli sguardi un po’ divertiti, un po’ rassegnati dei miei. Questo rito era obbligatorio, in qualunque circostanza e dovunque mi trovassi: la prima scaramanzia della mia vita da tifoso.
Quando il Napoli vinceva, l’euforia si protraeva per tutto il giorno. Innanzitutto, Super Santos sotto al braccio, scendevo a giocare e, insieme ad un mio amico, provavamo a riprodurre le azioni principali della partita, basandoci su quel poco che eravamo riusciti a cogliere dalla radiocronaca. Poi si tornava a casa, giusto in tempo per Novantesimo minuto, che avrebbe dato forma e colori alla nostra fantasia: i gol del Napoli risultavano sempre immensamente più belli di come li avessimo immaginati.
Se le cose andavano male, invece, sprofondavo in una disperazione inconsolabile. Credo che i più grandi pianti della mia infanzia siano state causate da sconfitte del Napoli. Ne ricordo in particolar modo uno, dopo l’andata dei quarti di finale della coppa UEFA dell’89, finita 2-0 per la Juventus. La mia disperazione fu tale da far preoccupare seriamente un ospite venuto ad assistere alla sfida a casa nostra. Solo mia madre riuscì a calmarmi, con un laconico “Non ti preoccupare, ci sta ancora il ritorno…. A Napoli Maradona gliene fa tre!”. Inutile ricordarvi come sarebbe andata a finire.
Ed è anche di quel periodo la mia “prima” al San Paolo: un Napoli – Inter del ’89. Di quel giorno, sembra incredibile, ricordo praticamente tutto, tanta fu l’emozione.
Quell’immenso prato, fino ad allora confinato a sbiadita immagine televisiva, visto dal vivo mi tolse letteralmente il fiato; il Napoli, l’azzurro intenso delle maglie, il colpo da biliardo di Diego ed il balletto di Careca sotto la curva. Indimenticabile.
E poi ci furono le straordinarie giornate dei trionfi, di feste incredibili e di un’euforia che sembrava contagiare proprio tutti. Il giorno dopo, mio padre, come immagino tantissimi, faceva incetta di quotidiani che celebravano le vittorie. Dopo averli sfogliati, li riponevamo con cautela in una cartellina trasparente, il cui scopo era di preservarli ad imperitura memoria di quei momenti. Pensavamo che quell’epoca d’oro non sarebbe mai finita e che avremmo continuato a raccogliere giornali per anni. Peccavamo di ottimismo: dopo la supercoppa del ’90, quella cartellina era destinata a restar chiusa per parecchio tempo.
Il Napoli della mia adolescenza è stato un Napoli decadente.
La città, con ancora negli occhi i fasti maradoniani, sembrava rifiutare l’idea di un ritorno alla normalità. In molti abbandonarono la squadra. La crisi fu inizialmente lenta: ogni estate si parlava di rilancio, ma poi si terminava il campionato leggermente peggio di quello precedente.
Finché non si arrivò alla terribile stagione ’97-’98.
Fino ad allora, l’idea di un Napoli in B era stata confinato agli aneddoti che mio padre mi raccontava dei tempi in cui andava allo stadio con mio nonno. Una curiosità storica, insomma.
Ma quella stagione rese quello spauracchio maledettamente reale. E fu proprio in quella situazione così tribolata che decisi di tornare allo stadio. Il Napoli mi aveva regalato infinite gioie da bambino e decisi che era giunto il momento per provare a ricambiare, in qualche modo.
Andavo allo stadio in motorino, insieme ad un compagno di classe di liceo. Ogni volta ci presentavamo al San Paolo sperando fosse l’inizio della resurrezione, ma incassavamo solo cocenti delusioni. Le giornate passavano, il Napoli giaceva desolato all’ultimo posto in classifica a distanza siderale dalla zona salvezza. L’incubo retrocessione si faceva sempre più reale e si concretizzò dopo un Parma – Napoli, finita 3-1.
Il giorno dopo andai in edicola e comprai una copia de “Il Mattino”. In prima pagina, sulla colonna di destra, un immagine di Taglialatela in lacrime, consolato da Fabio Cannavaro, sanciva la fine di ogni speranza: il Napoli era condannato alla serie B, dopo quasi trent’anni.
Presi la famosa cartellina trasparente, contenente i giornali dei trionfi ed aggiunsi quello del giorno della retrocessione. Mio padre assistette alla scena perplesso. Mi chiese perché volessi ricordare qualcosa di così brutto. Gli risposi che anche quel momento era, a suo modo, memorabile e che quel giornale, ricordandoci quanto in basso fossimo caduti, ci avrebbe spronato a godere a pieno le vittorie future, se e quando sarebbero mai tornate.
Pensavo, onestamente, che il Napoli avesse toccato il fondo e che, da allora in avanti, non avremmo potuto che risalire. Anche in quel caso, però, peccavo di ottimismo.
Gli anni successivi sarebbero stati, infatti, i peggiori di tutta la nostra storia.
La crisi societaria era profondissima. A poco valse l’illusione della promozione della stagione ’99/’00 e l’effimera soddisfazione che ne conseguì. L’anno seguente, tra mille polemiche, ripiombammo amaramente in serie B. La lista di giocatori mediocri o clamorosamente scarsi che si ritrovarono ad indossare la maglia azzurra in quel periodo è interminabile.
Eppure, non credo di aver mai tifato tanto come in quegli anni. Spesso andavo allo stadio da solo e mi mettevo a centro curva, dove incontravo mio cugino Davide, anche lui tifoso da tempo immemorabile. Cantavo ed incitavo la squadra per tutti e novanta i minuti, pensando che stessimo lottando per qualcosa di più di una partita o di un campionato: lottavano per la sopravvivenza stessa della nostra passione,
C’è un episodio di quel periodo che mi è rimasto particolarmente impresso: incontrai per strada un vecchio amico il quale, nel sapere che stessi andando allo stadio, mi guardò strano e mi pose con una domanda che non avrei più dimenticato: “Ma perché, il Napoli gioca ancora?”.
Lo rividi solo diversi anni dopo. In curva, ad una partita di Champions.
Alla fine, l’inevitabile accade: la SSC Napoli fallì.
L’estate 2004 fu una lunga, triste estate senza il Napoli.
Ero in vacanza in Calabria ed ogni giorno, come primo pensiero, andavo in edicola a comprare “Il Mattino”, unico modo per restare aggiornato sul susseguirsi degli eventi societari.
Il giornale dedicava ogni giorno una pagina ai messaggi dei lettori. Una mattina, proprio su quella rubrica, fu pubblicata una bella immagine della curva B. Mi misi ad osservarla attentamente, sperando di ritrovarmi tra i volti dei tifosi immortalati. Lo stupore fu immenso quando mi accorsi di essere in primo piano e perfettamente riconoscibile. Conservai quella pagina con cura e la inserii, appena mi fu possibile, nella cartellina dei giornali storici.
Essere rimasto vicino al Napoli in quegli anni terribili è e sempre sarà una delle cose che mi più mi rendono orgoglioso nella mia vita da tifoso.
Il resto è storia recente. Il clima da “primo giorno di scuola” di quel Napoli-Cittadella, la delusione della finale playoff persa, il ritorno in una B resa durissima dall’impensabile presenza della Juventus, l’ansia pre-partita per Genoa – Napoli, il viaggio a Lisbona per la prima trasferta europea della mia vita, l’incredibile emozione della notte in cui per la prima volta le note della Champions, sognate da una vita, risuonarono al San Paolo.
E poi l’orgoglio dei tre titoli vinti, che, dopo un’attesa di circa vent’anni, mi hanno permesso di aggiornare la famosa cartellina con qualche nuovo trionfo.
Il Napoli ha significato per me questo, ed una infinità di altre cose.
Le vicende della squadra hanno sempre accompagnato il mio percorso, intrecciandosi a tal punto che non potrei rinnegare nessuna stagione, neanche quelle peggiori, perché sarebbe come rinnegare una parte di me.
Se penso al Napoli, mi vengono in mente una miriade di ricordi: non solo gesti sportivi, ma anche e soprattutto momenti della mia vita: l’emozione di quando, da bambino, aprendo una bustina di figurine, ci trovai quella di Maradona; oppure di quando mio padre mi annunciò che saremmo andato al San Paolo; rivedo la mia indimenticata mamma che, per il mio compleanno, realizzò una torta a forma di campo di calcio su cui pose le miniature dei calciatori azzurri; o che, più recentemente, seduta in cucina, cuce il gagliardetto della coppa Italia sulla mia bandiera storica; mi ritrovo con il mio amore Carlotta in curva, stringendole la mano in un momento difficile di una gara; o ad abbracciarla dopo un gol decisivo all’ultimo minuto, mentre lo stadio esplode della stessa gioia; o quando, come già raccontato su queste pagine, aspettammo, soli all’aeroporto, per un’intera notte la squadra di ritorno da una trasferta sfortunata.
“Se avessi due vite te le dedicherei entrambe”, recita un motto usato da diverse tifoserie in giro per il mondo. Rende bene l’idea.
Il Napoli mi ha regalato emozioni indimenticabili, ben oltre i semplici risultati sportivi che, comunque sia, finiscono per essere archiviati. In una cartellina trasparente, nel migliore dei casi.
Ciò che resta davvero sono, appunto, le emozioni, che trascendono ogni valutazione, ogni categoria, ogni obiettivo in palio.
Finché le proverò ancora, finché guardare il campo continuerà a togliermi il fiato per qualche istante, finché il Napoli mi regalerà storie da raccontare, allora continuerò a seguirlo con la stessa passione.
Schierandomi sempre al fianco della squadra, condividendone vittorie e sconfitte, gioie e delusioni, applausi e fischi, come se ne facessi parte.
Non sempre è facile, ovviamente, ma solo così mi sento di poter vivere a pieno le emozioni che mi trasmette. E, per citare un premio Oscar nato proprio da queste parti, in fondo le emozioni sono tutto quello che abbiamo.
Forza Napoli. Sempre.
Luca D’Emilio