(Aurelio De Laurentiis è a Madrid per provare a ingaggiare il tecnico del Siviglia Emery. Riportiamo un suo bel ritratto, dal sito l’Ultimo uomo).
Sono passati 10 anni da quando un trentatreenne Unai Emery decide di accettare la proposta del presidente del Lorca, la squadra di terza serie dove è tesserato ma non gioca da tempo per via di un infortunio al ginocchio, di ritirarsi dal calcio giocato per tornare come allenatore della squadra a stagione in corso. Sarà lo stesso Emery a raccontare anni dopo come sia stato strano salutare i compagni di squadra dopo un allenamento e tornare giorni dopo come loro allenatore, dirigendo l’allenamento. La carriera da giocatore non ha riservato tantissime soddisfazioni a Emery, che come picco può vantare cinque presenze nella Liga con la Real Sociedad, squadra in cui è cresciuto prima di proseguire nelle serie inferiori del calcio spagnolo. In questi dieci anni da allenatore però le cose sono cambiate.
Emery si è affermato come uno dei migliori allenatori spagnoli della sua generazione, raggiungendo due promozioni (proprio con il Lorca al primo anno da allenatore, poi con l’Almeria, portandola in Liga al primo tentativo) prima di assestarsi nell’élite come tecnico di un Valencia che è riuscito a mantenere ad alti livelli nonostante debba ogni anno perdere i migliori giocatori (e che giocatori…). Poi la breve e fallimentare esperienza in Russia con lo Spartak, squadra che non lo ha voluto o potuto capire, come troppo spesso succede a Mosca con i tecnici stranieri. Chi lo ha fortemente voluto e capito è il d.s. del Siviglia, Monchi, che non si fa sfuggire l’occasione di riportarlo in Spagna nel gennaio del 2013, dandogli fiducia anche quando la squadra ha toccato il fondo della classifica dopo la sconfitta per 3-1 contro il Valencia alla quinta giornata della stagione successiva 2013/14.
Non facendosi prendere dal panico Monchi ha lasciato che il suo allenatore tanto voluto continuasse a lavorare con l’appoggio della società alle spalle. Ne sa di pallone il d.s. del Siviglia e decide quindi di continuare il progetto fidandosi della sua scelta. I frutti di tanta fiducia arrivano prima del previsto, con una scalata fino al quinto posto e la conquista dell’Europa League, eliminando in semifinale proprio il Valencia che aveva fatto tremare la panchina di Emery pochi mesi prima, battendo in finale, a Torino, il più quotato Benfica.
La partita di ritorno contro il Valencia finisce 3-1 esattamente come ad inizio stagione in campionato. Solamente che questa volta Unai non esce mestamente dal campo cercando lo sguardo rassicurante di Monchi.
Si possono immaginare facilmente gli occhi di Monchi che brillano di orgoglio quando in piena euforia post vittoria descrive Unai Emery come un instancabile lavoratore e, soprattutto, un allenatore in grado di migliorare i proprio giocatori, caratteristica fondamentale in una squadra che deve ogni anno reinventarsi per sopravvivere ad alti livelli.
L’idea del miglioramento è un chiodo fisso per Unai Emery: in una bella intervista con Canal+ ha detto che la felicità non deve essere nel risultato finale, ma nel processo di crescita che a quel risultato ha portato. È lì che lui si sente di dover intervenire e di poter dare il suo contributo alla squadra. Lavorare andando a limare il margine di crescita del singolo giocatore e del sistema di squadra, ogni giorno, è una specie di ossessione. Non si stancherebbe mai di ripeterlo nell’intervista per Canal+, con la sua oratoria tranquilla e chiara, di chi vuole farsi capire bene. Si accompagna spesso gesticolando esattamente come in partita, solo che quando non è a bordocampo i movimenti accompagnano il discorso, non lo sottolineano con foga.
L’ossessione per il processo di crescita nasce forse dal suo periodo da calciatore. Così dice quando afferma che mancando del talento necessario al grande calcio nasce in lui la voglia di imparare come migliorare le proprie lacune, riflettendo su cosa gli allenatori che lo hanno avuto a disposizione di volta in volta non sono riusciti ad insegnargli. Questa ricerca dell’errore nel lavoro degli altri lo ha reso estremamente esigente con il proprio operato e con quello di chi gli sta intorno. Chiede ai propri assistenti di correggere continuamente i suoi metodi se viene riscontrato durante il processo di preparazione della squadra anche il più piccolo errore, spiega con calma all’intervistatore. Pretende preparazione massima per ogni azione eseguita durante i 90 minuti, così da mantenere l’attenzione del giocatore solo sulla partita e isolarlo dalla paura dell’ignoto o dal pensiero di poter fallire. Non esiste nulla che non venga analizzato nel dettaglio. Gli errori ci sono, impossibile prescindere dagli errori, ma allora che gli errori entrino a far parte del processo di crescita. Si ritorna quindi al processo di crescita come vera gioia di un allenatore. Prosegue qui.
Daniele V. Morrone