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Ho paura di essere giunto alla conclusione che per vincere servono dirigenti potenti politicamente

Ho paura di essere giunto alla conclusione che per vincere servono dirigenti potenti politicamente

Fino all’altro ieri mi pareva si potesse guardare il calcio da due prospettive: una di pancia e una di testa.

Quella di pancia, ansiosa di vincere, orgogliosa della propria identità, pronta a guardare con sufficienza le vittorie e con raccapriccio e indignazione ogni pareggio e ogni sconfitta. Una prospettiva che, impregnata delle caratteristiche meno buone del popolo napoletano, si lamenta, cerca il colpevole, sembra godere delle sconfitte solo per il gusto di poter dire “l’avevo detto” e per poter attaccare il presidente, la società, l’allenatore. È la prospettiva dell’ “Aurelio vattene”, “Benitez a casa”, “il ritiro punitivo”, etc. etc.

Quella di testa, più moderata, più consapevole dei limiti di un territorio e di una società, della difficoltà di crescere, più capace di guardare lontano nel passato e rendersi conto che, tutto sommato, Higuain è meglio di Penzo o Caccia e che una semifinale di Europa League è meglio di una vittoria contro la Juventus.

E lungo la strada dell’appassionato di calcio, ero sicuro di aver imboccato, istintivamente e con convinzione la strada della testa, in buona compagnia con la comunità del Napolista. E così speravo (e ancora spero) in un rafforzamento del progetto De Laurentiis, nella permanenza di Benitez, nell’internazionalizzazione del profilo della società; convinto che questa fosse la strada giusta per vincere.

Poi è venuta la semifinale di Europa League; l’andata, con un arbitraggio a senso unico, il ritorno, ancora peggio. L’analisi impietosa di Cesari ha mostrato la somma incredibile di favori arbitrali di cui ha goduto il Dnipro.

E devo dire la verità, io agli “errori” non riesco proprio a crederci. Un fuorigioco di due metri  non visto è come un rigore di Higuain tirato in fallo laterale; un arbitro internazionale o di serie A non può non vederlo, deve “sbagliare” di proposito;.

E la mente è andata alla finale di Doha, a Napoli-Juventus di quest’anno, che ha cambiato la storia del campionato, l’andata e il ritorno di Europa League.

Non si può far a meno di cogliere la portata politica di quanto accaduto. Non per cercare alibi, non per sottrarsi al confronto con l’analisi tecnica, ma perché se non se ne parla si trascura un elemento determinante per capire qual è la strada per vincere.

Mi rendo conto che per gli addetti ai lavori è difficile parlarne (soprattutto per opportunismo e/o timore della reazione del sistema), così come è difficile parlare del doping per chi commenta il ciclismo. E tuttavia, con onestà intellettuale non si può far finta di non accorgersi che in partite equilibrate e tiratissime, come sono gli scontri diretti nel calcio moderno, qualche cartellino in più o in meno amministrato intenzionalmente determina il risultato.

E allora, forse, comincio a pensare che il percorso verso la vittoria giunga a un bivio con due strade differenti. Non già quella dell’ansia e della passione, da un lato, e quella della pazienza e della consapevolezza critica, dall’altra.

Ma quella del vincere costruendo un calcio ispirato a valori positivi e quella del vincere partecipando alla giostra dei bari.

De Laurentiis fino ad oggi ha dimostrato di essere istintivamente contro il sistema o comunque distante dal sistema e io, eticamente, preferisco così.

Tuttavia, temo che, volendo vincere, piuttosto che ragionare sull’allenatore, sullo stadio e sul centro sportivo, bisogna ragionare sulla scelta di dirigenti potenti politicamente, anziché bravi. E quest’idea mi fa un po’ paura…
Raffaele Fiume
(www.raffaelefiume.it)

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