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Quegli insulti a Benitez, uno dei pochi che ha sempre speso parole di ammirazione per Napoli

Quegli insulti a Benitez, uno dei pochi che ha sempre speso parole di ammirazione per Napoli

Molto sommessamente, vorrei dire una cosa. A prescindere da quello che succederà, anche perché sembra che non interessi quasi a nessuno, al di là dalle idee, delle critiche, delle riflessioni, e tutte giuste, ci mancherebbe, anche quelle rivolte alla società e all’allenatore, oltre che ai calciatori, c’è una cosa che però poco mi convince, oltre a farmi vergognare. Amo Napoli, e la amo a tal punto che quando ci vado, quando entro nelle chiese, quando mi avvicino ai monumenti, quando entro in un museo, o in un palazzo antico, persino quando me ne sto accanto a una panchina, cerco di stare attento a dove metto i piedi, controllo di non passare sopra una tessera di un mosaico, anche quando sarebbe permesso calpestarlo, non alzo la voce, sono gentile con chi mi chiede un’informazione, e, se posso, intrattengo piacevoli conversazioni con sconosciuti e con turisti. Amo Napoli, a tal punto da sentirmi in colpa ogni qual volta mi accorgo di non conoscere quel luogo o quella storia, di non essermi accorto di uno dei suoi tanti angoli preziosi, di non averne parlato agli altri.

Alla luce di tutto questo, per quanto conti, trovo desolanti, patetici, vergognosi gli insulti rivolti a Benitez. Parliamo di una persona che, tra le pochissime a farlo, ha speso parole di ammirazione per la città, per la sua storia, per la sua gente. Trovo squallido apostrofarlo con quella ipotetica ironia, molto ipotetica, che lo definisce come l’ultimo dei “cantenieri”. Sapete perché? Perché parliamo di un allenatore che è nella storia del calcio, di un uomo che è nella cultura, oltre che nello sport, di uno che vanta una carriera ricca dei maggiori traguardi della sua professione, e che, fino a prova contraria, non ha mai consentito a niente e a nessuno di mettere in discussione il suo livello di moralità.

Non mi aspetto più niente di buono da un popolo da sempre diviso dall’invidia per la nobiltà, luogo spirituale in dote a pochi, e dallo sguazzo putrido e narcotizzato nella più misera e becera plebaglia. Non mi aspetto niente di buono da chi ha dimenticato Benedetto Croce, da chi non conosce Bartolomeo Capasso, da chi usa l’immagine di Eduardo come fosse un souvenir, pensando di aver compreso i suoi insegnamenti soltanto perché gli è bastato imparare a memoria qualche sua commedia, da chi, nella peggiore delle tradizioni plebee, perlustra i luoghi dove si nascondono le pulci degli altri e non si accorge del mondezzaio che si ritrova addosso, da chi ha imparato solo l’arte dello sbraitare e non sa compiere un ragionamento con serenità e saggezza, da chi attinge presso osservatori corrotti (gran parte della stampa odierna) e ignora quanto di realmente considerevole andrebbe osservato, da chi si dice sostenitore e poi antepone la propria vanità di pensiero all’idea secondo cui, forse, non resterebbe che confidare in questo gioco di inganni alla stessa maniera di quando le cose vanno bene.

Possiamo pure accompagnare Benitez al confine prendendolo a calci, ma lui sarà sempre Rafael Benitez Maudes, sopra la bandiera del grande Liverpool, dentro il palmares del Valencia, del Chelsea, dentro la storia del calcio internazionale, magari ad allenare chissà in quale grande club, e noi, poco più di ottant’anni di storia di calcio, rimasti al palo di quella ignoranza che un tempo passava per genuina simpatia, ma che adesso, che tristezza, si traduce in una volgarità di pensiero, che, con desolante perfezione, parla per quella di spirito, che, invece, vanta qualche secolo in più.
Elio Goka

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