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Sono stati i funerali voluti dalla famiglia di Ciro

Non ricordo più quanto tempo fosse che mancavo da Scampia. La strada la ricordavo. Ma sulla circonvallazione, venendo da Piscinola, l’uscita non c’è più. Quindi faccio il giro e torno da Melito, via Secondigliano. Sono i festoni azzurri, le maxifoto di Ciro, i cartelli esposti, i mazzi di fiori, a indicare la strada. Piazza Grandi Eventi. Scampia. Le Vele. Quelle che ancora sono rimaste in piedi (a proposito, ma che fine ha fatto il progetto che cominciò con la prima dinamite che non scoppiò?). Quelle che fanno da scenografia nella fiction che tanto successo ha riscosso. Ricordo che la prima volta che ci andai rimasi colpito da un particolare forse stupido, che poteva colpire solo un ingenuo giovanotto che voleva fare il giornalista: in quello sfacelo di sporcizia, vetri rotti e tutto il resto, davanti all’ingresso di una Vela, c’era un piccolo orto. Coltivato. C’erano anche i pomodori. Poi tornai con l’autobus perché mi sfasciarono il motorino. E lo scrivo solo per non essere accusato di indulgere al sentimentalismo. Piazza Grandi Eventi. Qui nel Duemila arrivò papa Wojtyla. C’era tanta gente ieri. Già dalle due del pomeriggio. Anche prima. Tanta gente. E tanti volti. Oggi descritti da Montesano sul Mattino. E ieri immortalati da Francesco Bassini e altri fotografi. In questa storia, una delle frasi che mi ha colpito di più la pronunciò un mese fa in piazza Dante lo zio di Ciro – iscritto alla Fiom e con un robusto senso politico: “Noi siamo qui anche per difendere il diritto ad avere un aspetto cattivo”. Piazza Grandi Eventi dà la sensazione tangibile di una agorà. Un piccolo tempio allestito subito sulla sinistra, dove arriverà la bara di Ciro. Un immenso spiazzo. E due luoghi, come se fossero due settori. Come in uno stadio. Uno che dà sul tempietto. L’altro in fondo, molto in fondo. Con una gradinata che sembra una curva. È lì che si sono posizionati tanti ultras. Che hanno esposto il loro striscione: “La Napoli ultras con dignità piange un degno figlio della sua città”.Le facce, dicevamo. Normali. Gente normale. Che voleva esserci. Testimoniare. Signore, mamme, ragazzi, anziani. Che sono lì per Ciro e la sua famiglia. Per la mamma. “Tene ’na forza, sta femmena”, commentano le donne mentre la signora Antonella, un po’ spazientita, chiedeva che la folla non si accalcasse per consentire l’inizio della cerimonia. Non c’è stato il silenzio, è vero. Come ha scritto Mario Colella, era inevitabile. C’è stata la partecipazione. E molto probabilmente è quel che desiderava la famiglia Esposito che ha fatto del proprio dolore un esempio. Come in questi anni è capitato a una famiglia del Nord, i Gambirasio. Non volevano un funerale privato. Lo avevano messo in conto che non ci sarebbe stato il silenzio. Volevano trasmettere un messaggio. Quel messaggio che hanno ripetuto per oltre cinquanta giorni. Lo hanno detto in ogni salsa. Tutti. La madre, la fidanzata, lo zio, il pastore. «Non siate animati da propositi di vendetta». C’era anche, tra la folla, don Aniello Manganiello, che poi è stato chiamato lì. «Alla scuola della mamma di Ciro abbiamo imparato il Vangelo della misericordia», ha detto. Prima, ci ha ricordato la sua esperienza da presidente dell’Oratorio don Guanella. «Quel che è successo – ci ha detto – è figlio di una certa cultura del disprezzo, del dileggio, dell’offesa nei confronti di Napoli. Così si è contribuito a creare l’humus per produrre tragedie di questo tipo. Si preparano con offese gratuite. E – aggiunge – non sono figlie del grande calcio. Siamo andati a giocare ad Avellino noi del Don Guanella, con la nostra squadra di calcio. Lungo il muro di cinta c’era tanta gente assiepata. Ci hanno gridato “Vesuvio, lavali col fuoco”, “Noi non siamo napoletani”.Il Padre nostro è stata la sua preghiera. La preghiera che unisce i cattolici e gli evangelici. E non solo, in realtà. Il sole picchiava. La piazza era ormai piena. L’orazione va avanti. «È più facile odiare che amare». «Napoli è una città di accoglienza». «Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare». «Napoli non sarà vinta dal male». «Dalle sconfitte impariamo la vera fede, il vero carattere». «Siamo pronti ad accogliere le altre squadre con una stretta di mano».Viene letto il telegramma della presidenza della Repubblica. Quello dell’ex sindaco Rosa Russo Iervolino. Il primo, e credo unico, a pronunciare la parola eroe è Angelo Pisani. Aurelio De Laurentiis trova il coraggio di dire: «Siamo troppo divisi in campanilismi, Nord e Sud. Siamo tutti italiani, figli della stessa terra. Questa morte permetta al calcio di ripartire, di trovare una sua identità, una cultura della sportività». Con lui, in rappresentanza del Napoli, c’erano Lorenzo Insigne e Grava, più tre giocatori della Primavera. È stata la famiglia Esposito a concedere la parola a “persone che ci sono state vicine in questo periodo, che noi consideriamo nostri amici, non solo rappresentanti delle istituzioni. Quindi, per cortesia, non fischiate, vi preghiamo solo di ascoltarli”. È stata la famiglia Esposito a voler salutare così Ciro. Un momento solenne. Ma anche politico, divulgativo. È naturale che chi non c’era possa lamentarsi degli applausi e di qualche arringa. La famiglia ha voluto così. Sin dal primo giorno, la famiglia ha voluto testimoniare il proprio dolore, la voglia di giustizia e l’assoluta condanna di ogni forma di vendetta. E fino alla fine è stato così. E sì l’applauso più forte se l’è preso il sindaco de Magistris quando ha detto: “Ci avevano dipinti come brutti, sporchi e cattivi. Avevano già cominciato a trasmettere un film già scritto su quella sera. Abbiamo dimostrato, grazie alla forza della famiglia di Ciro, a sua madre che io considero simbolo di Napoli, che non era così”. Poi hanno parlato la fidanzata di Ciro, un’amica. Quindi la madre. «Abbiamo tanto bisogno di forza», ha detto. «Abbiamo cominciato a pregare la sera del 3 maggio e abbiamo continuato in questi cinquanta giorni». Non è stato un caso se gli Esposito hanno riservato l’ultimo intervento a Nino D’Angelo, il cantante preferito di Ciro. Volevano un collante. La famiglia voleva e vuole trasmettere un messaggio. Lo so, sembrano parole banali, ma se avessero voluto il funerale silenzioso, lo avrebbero fatto officiare in forma privata. Hanno scelto Nino D’Angelo. «Io ho scritto una canzone sulle persone come noi, come voi, “Brava gente”, simbolo delle tante persone perbene che vivono qui. Ho conosciuto questa famiglia. La mamma in due secondi mi ha insegnato la vita. Il padre non ha detto una parola». E poi, un breve silenzio. Prima di attaccare: “Na bandiera tutt’azzurra…” che rassomiglia ’o cielo e ’o mare ’ e sta città. La piazza ha cantato. Tutta. Perché la famiglia di Ciro voleva così. In fondo, vista da quell’elicottero che in Gomorra (il film) ci regalò quella magnifica scena dei bambini che giocano nella piscina gonfiabile nelle Vele, ieri c’era una grande piazza gremita proprio ai piedi di quelle Vele. Un funerale. Un giovane andato ad assistere a una partita di calcio e mai più tornato. Una famiglia straziata dal dolore, eppure composta. Tante gente normale. E ai lati i rappresentanti di quel modo di vivere il calcio che è così distante dal nostro. Che – continuiamo a pensarlo – se non ci fosse stato, oggi Ciro sarebbe ancora vivo. Tanti striscioni, festoni azzurri. Manifesti della Fiom. E tanta, tanta dignità. Poi, certo, la paura che tutto svanisca alla prima di campionato c’è. Ma questa è un’altra storia. Massimiliano Gallo

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