14 febbraio 2004. Facebook esisteva appena da una settimana. Twitter non c’era ancora. Quindi il tam tam non avvenne sui social network. Bensì attraverso il vecchio, caro sms. “Pantani è morto, forse si è suicidato”. Una di quelle notizie che ti lasciano senza parole. Non hai nulla da dire. Se, ovviamente, chi non c’è più è stato l’oggetto del tuo amore. E io Pantani l’ho amato. Da sempre. Da quel primo giorno. E chi se lo scorda più. Il giro del 1994. La tappa del Mortirolo. Quello sgorbietto mandò Indurain in crisi, lo piantò e se ne andò su su, lungo quelle stradine strette e scoscese circondate da alberi. De Zan, e noi con lui, non credeva ai suoi occhi. Scavallò in cima. E dopo, in discesa, si mise dietro la sella, scendendo come facevano i ragazzini spericolati. In pianura, poi, non morì contro vento. Aspetto Miguel, lo fece tirare un po’. E poi in salita lo piantò. Una di quelle giornate ben sintetizzate da Paolo Conte: “Al cine vacci tu”. Non era Ginettaccio. Ma l’uomo nuovo del ciclismo italiano e non solo.
Mi aprì il cuore Marco Pantani. Da quel giorno non ho smesso di amarlo. Ricordo tutto di lui. Gli incidenti, la Milano-Torino, il gatto al Giro d’Italia, le memorabili rimonte al Tour con l’idolo di casa, Virenque, superato come se niente fosse. «Vado forte in alita così smetto prima di soffrire», disse in una memorabile intervista a Gianni Mura che lo soprannominò pantadattilo. Il ciclismo italiano tornava di nuovo eroico, epico. Come quel giorno di luglio del 1998, quando, sotto l’inferno atmosferico, disintegrò Ullrich sul Galibier e andò a prendersi la maglia gialla.
Ne ho avuti di idoli sportivi, e Pantani è lì, in cima, al fianco di Alberto Tomba. Poi arrivarono Madonna di Campiglio e quelle analisi. Crollò tutto. Quel giorno finì Pantani. Si sentì abbandonato. Dovette subire altre umiliazioni, come quella di Armstrong al Tour. Lui, il dopato per eccellenza, che al traguardo disse: “L’ho fatto vincere”. Tra i ciclisti italiani che ho potuto ammirare, Pantani è stato indubbiamente il più forte. Vicino, vicinissimo, alla mia idea di ciclismo romantico.
Ed è bello pensare – anche se ovviamente non è vero – che la maglia gialla del Napoli abbia un senso come omaggio a quel giorno di luglio del 1998. Quando Marco Pantani indossò quella maglia che non lasciò più fino a Parigi.
Massimiliano Gallo