Lei esce e va verso di lui. Sorride, è vestita di bianco. Gli chiede: “Hai aspettato molto?”. E mentre entrano in macchina per andare al ristorante, lui risponde: “Tutta la vita”. Cosa sarebbe questa scena di C’era una volta in America senza il sottofondo di Ennio Morricone? E quella di E.T. che vola in bici col suo amichetto, la luna chiarissima sullo sfondo: cosa sarebbe senza le note di John Williams? E poi il Napoli, il Napoli. Il Napoli che vince in un San Paolo pieno, pienissimo, sotto la pioggia, vince e va in testa alla classifica per una notte, come alla 23esima giornata non gli succedeva dal 1990. Ecco. Cosa sarebbe una scena del genere senza Ojvitamia?
Ehm. Ecco… Cioè… Cosa sarebbe di una scena così lo sappiamo. Perché è successo. Che se uno lo racconta fra cinquant’anni non gli si crede. Il Napoli primo. Stadio pieno. E noi non cantiamo Ojvitamia. Io mi faccio ancora le croci. Con la mano smerza. Dice: ma quella non è una canzone per ogni uso, va bene per le grandi vittorie. Santiddio, e sabato sera non è stata una grande occasione? Non era una notte da Ojvitamia? E che notte era?
‘A cchiù bbella ‘e tutte ‘e belle nun è mmaj cchiù bbella ‘e te. Qualunque cosa stiate facendo, fermatevi un attimo. Ripetete, e pensate alle parole. ‘A cchiù bbella ‘e tutte ‘e belle nun è mmaj cchiù bbella ‘e te. Ma questo è un verso che fa piangere. Benigni ci costruirebbe una lezione di due ore per tutto il carico di amore che contiene. E’ una bomba d’amore. Sia che uno si rivolga a una donna sia che pensi alla propria squadra. La più bella di tutte le belle, cioè una dea, un mito, un essere che forse vive solo nel mondo iperuranio, quella lì, quella, quella non è più bella di te. Non ci riesce, può essere chi vuole lei, è inutile che fa. Non lo è. Non solo non lo è oggi, proprio non lo sarà mmaj.
Ma questa è una dichiarazione d’amore che fa venire i brividi. A chi la riceve, ma pure a chi la porge. Noi disponiamo di una canzone d’amore del genere e non la usiamo. A noi, per questa cosa qua, ci dovrebbero prendere, portare a Norimberga e processarci. Soprattutto. Non la cantiamo e sembra pure normale. Nessuno che si chieda perché.
Si dice che in curva non vogliono. Boh. Pare strano. Pare una di quelle leggende incontrollabili. Perché mai non vorrebbero? Sarebbe bello saperlo. Magari esistono buoni motivi. Forse qualcuno obietta che le due semiminime (sol e fa) che aprono il ritornello, accostate alle quattro crome successive (fa fa fa sol), compongono una partitura che manca di quell’Ursatz che è il cuore dell’analisi shenkeriana. Se è così, ci sediamo, ne parliamo, magari hanno ragione. Oppure c’è chi eccepisce sull’incongruenza fra l’arrangiamento da marcetta previsto per la melodia di Enrico Cannio e il testo drammatico scritto da Aniello Califano. Ci può stare, effettivamente i due elementi stridono, discutiamone, confrontiamoci. Può darsi che mi convincete. Ma se non mi convincete, ne’, perché non la dobbiamo cantare? Perché nessuno alla fine di Napoli-Catania ha schiacciato il tasto Play dell’impianto allo stadio?
Forse il punto è un altro. Forse il punto è che il San Paolo ha rinunciato a cantare. Fateci caso, sabato è stato evidentissimo. Il San Paolo non accompagna più la partita con delle melodie, ma con certe specie di suoni gutturali. Suoni gravi, certamente funzionali alla trasmissione in lontananza. Ma sono voci afone. Sfiatate. Sfruttano la cassa di risonanza del piano glottico senza utilizzare le potenzialità dei seni nasali e paranasali. Sono voci ingolate, non proiettate. È una disfunzione, questa. È una cosa seria per noi cresciuti nel regno della posteggia e della voce a fronna di limone. Come sia potuto accadere, non lo so. A noi che cantavamo sulle note del coro dell’Aida, sulla Marsigliese, a noi che un giorno inventammo il porompompero, adesso tocca di stare allo stadio per 90 minuti senza cantare. Senza melodie, dico. Un tempo in una notte così saremmo entrati in campo con le voci di Diego, e di Giordano, e di Bagni, e di Renica (“Io che amavo sempre Napoli, seconda mamma mia, grazie di chiamarmi figlio”). In una notte così avremmo almeno intonato Vincereeeemo Vincereeeemo Vinceremoiltricolooooor. Niente. Neanche questo coro. Incredibile. Se n’è solo ascoltata una versione nuova, un remake, pure quello addobbato da muggito, con un’intro gutturale che chiamava De Laurentiis, avvertendelo del fatto che vogliamo vincere. Avvertendelo. Nulla a che vedere con il festoso originale che dispiegava le corde vocali in tutta la loro estensione. Abbiamo preso una gioia e ne abbiamo fatto una versione dark.
Così, mentre ogni squadra si vota alla costruizione di una ritualità da stadio, mentre gli altoparlanti di tutt’Italia diffondono inni e cori quasi tutti bruttini, alcuni bruttissimi, noi abbiamo questo ben di dio ed entriamo in campo su un tunf-tunf-tunf che sfonda i bassi delle casse; noi da primi in classifica ce ne torniamo a casa zitti e muti, al massimo sbraitando che chi non salta juventino è. Noi, quelli di Scarlatti, Durante, Paisiello, Pergolesi. Noi, quelli di Bovio, E.A.Mario, Caruso, Carosone. Quando invece sarebbe bello entrare in campo in uno stadio in cui tutti siamo vestiti d’azzurro, le sciarpe in alto, e Napul’è mille culure. Quando invece sarebbe fantastico tornare a casa cantando che ‘a cchiù bella ‘e tutte ‘e bbelle nun è mmaj cchiù bbella ‘e te. Ojvitamia è del resto come una chiesa sconsacrata. Abbiamo lasciato che ne facessero scempio alcuni tifosi avversari. L’abbiamo abbandonata alla dimensione di scalpo. Nel 2015 ricorrerà il suo centenario. Dobbiamo cantarla più volte che si può. Per riconsacrarla. Non ve lo devo certo ricordare io che come inno del Napoli nacque all’Olimpico di Roma, 1975, durante un Lazio-Napoli. Non ve lo devo certo ricordare io che partita c’è sabato. Voi fate quello che vi pare, io vado a ripassarmi le parole.
Il Ciuccio