Io era a casa del mio amico Salvatore, giocavamo sul suo terrazzo. Solito copione di tanti pomeriggi e tante sere: lui a porta e io che cercavo di infilettarlo con la palla di carta foderata di nastro adesivo. Era de Maggio come scrisse qualcuno molti anni prima. Smettiamo i nostri infiniti giochi e accendiamo la Tv. Era il giorno della finale, Napoli contro la Germania: da bambino era così, una città poteva essere grande quanto una nazione intera e, in proporzione, anche la vittoria aveva un sapore ancora più rilevante .
Maggio prende palla, corre corre corre e la serve al Matador. Avevo visto già tutto. Sulla linea di centrocampo già presentivo l’epilogo. Da spettatore mi è successo quello che mi accade(va) in campo in certe giornate di grazia particolari quando sai già dove va il pallone e dove farti trovare, quale movimento fare e dove e come tirare. Era gol molto tempo prima che Cavani ricevesse la palla. I polmoni si riempiono, gli occhi che luccicano, gooooool. Mi inginocchio a terra con le mani sulla faccia. Non lo so Edinson come ha esultato, se ha portato le mani al cielo o se ha mandato un bacio alla straordinaria torcida partenopea. Io sono sul pavimento con il cuore che mi scoppia e le lacrime agli occhi. Le gocce mi scorrono sulla pelle insieme a tutte le persone che avrei voluto abbracciare in quel preciso momento. Sono con le mani sulla faccia per non guardare e per non guardarmi. Non voglio vedere di essere alla soglia dei trenta. Sono bambino, di nuovo, e sono ancora su quel terrazzo con il mio amico Salvatore. Careca, Diego, Ciro, De Napoli, Alemao li vedo tutti insieme in un millesimo di secondo. Come uno di quei sogni che sembra eterno e invece è durato solo pochi attimi.
Tra il primo e il secondo tempo corsi a casa. Una di quelle corse sfrenate e uniche che tanti anni dopo riesci ancora a ricordare nitidamente gli odori di quella sera, l’asfalto che ti scorre sotto i piedi, i sassolini, le ombre giganti del tuo piccolo corpo proiettate dai lampioni.
Quando Maggio prende quel pallone e inizia a macinare metri già sapevo, faceva una corsa che conoscevo già. L’abbiamo fatta insieme. Quel suo giro dato al pallone aveva un soffio di forza pure mio. Qualche minuto dopo mi telefona l’amico Emanuele. Io piango, lui pure e forse sono lacrime che hanno lo stesso sapore.
A casa c’era il nonno sulla sua poltrona. Vivemmo insieme quel secondo tempo. Il calcio è diverso dalla vita. Una partita dura un tempo esatto, la vita termina e ti vola via dagli occhi all’improvviso. Non c’è nessuno che fischia, e nessuno ad indicare i minuti di recupero. Non si recupera niente: o li vivi quei minuti oppure sono persi. Dopo poco più di un anno su quella poltrona non c’era più nessuno. A me è rimasta la gioia di quei quarantacinque e passa minuti. Alla fine tutti gli altri corsero alle baldorie e ai caroselli. Io restai su un bracciolo a stringere mani che mi passavano dai pori le emozioni. Gli occhi dentro gli occhi.
Per una sera tutto è tornato a me. Come il mare che a volte riporta oggetti sulla spiaggia. Grazie Napoli che mi fai emozionare. Grazie Napoli che mi fai ricordare.
Valentino Di Giacomo