Paoluccio era alto, ben sopra la media; magro, con le spalle spioventi, i capelli radi e neri, il naso affilato; portava gli occhiali, grandi, e lo notavi da lontano, col suo incedere dimesso, il soprabito scuro che copriva la giacca a quadri piccoli, la camicia bianca e la cravatta lunga e stretta; quando ti avvicinavi, invece, ti colpiva il suo sorriso, il vezzo di abbassare e muovere leggermente il capo. Ti guardava negli occhi e aspettava che fossi tu a iniziare, per poi sciogliersi e intrattenerti col suo parlare educato, tranquillo, con una voce dal timbro flebile ma con un che di allegro. Lo incontravo spesso la domenica (quando il Napoli giocava fuori, naturalmente), col suo pacchettino di paste, piccolo e aggraziato; viveva col padre; chissà se ha mai pensato di sposarsi; e così, dopo la messa, prima di tornare a casa, passava in pasticceria.
Paoluccio era un ottimista e vedeva le cose sempre dal lato buono; aveva fatto molti lavori, anche l’impiegato al partito monarchico, ma da ultimo era al bancolotto; gli piacevano tutte quelle persone che si rivolgevano a lui per chiedere consiglio, anche se di numeri e smorfia ne capiva poco.
Paolù, oggi vincimm’? “Non c’è dubbio”, rispondeva e ogni volta caricava le sue speranze di vittoria sulle qualità di qualche azzurro che la domenica precedente aveva ben giocato ed era, per ciò solo, un fuoriclasse. Paolù, ma domenica allo stadio non ti ho visto – in effetti aveva l’abitudine di andarci da solo, al San Paolo, e di accompagnarsi a noi solo per le trasferte – ma dove hai mangiato? da Pizzicato, rispondeva; ma comme, da Pizzicato?! tu sì pazzo, lo hanno appena chiuso tanto era sporco! E lui: e sì, se lo hanno riaperto vuol dire che tutto è a posto!
Ti lasciava sempre così, incapace di replicare, tanto erano ovvie le sue risposte.
In trasferta non si trasformava, anzi, era ancora più silenzioso, sia che sedesse in macchina che in uno scompartimento ferroviario. Quella domenica arrivammo a Torino all’alba; malgrado fosse già primavera, il treno, alle porte della città, entrò in un tunnel di nebbia; ma quando fece ingresso nella stazione di Porta Nuova, affiancato da un altro, speciale come il nostro, si levò il sole e un tripudio di bandiere azzurre, che per incanto erano apparse dai finestrini, scivolò lentamente lungo i binari. Paoluccio si era sporto più di altri e mi parve subito interdetto, attonito; non disse nulla ma vidi che, tolti gli occhiali, si stropicciava gli occhi. Quando mettemmo piede a terra si avvicinò, non sapeva che avevo notato quel gesto e, vincendo la sua riservatezza, mi disse: Mimì, quando ho visto tutte chelli bandiere, mm’aggio mise a chiagnere!
Poi, per tutto il giorno, ci seguì per la città, taciturno come sempre, trascinando la bandiera che Mauro, ogni trasferta, portava con sé. Solo core ‘ngrato fu capace di fargli cambiare espressione, di farlo impallidire; mai avrebbe immaginato che il suo idolo lo avrebbe così perfidamente tradito; lui, che una sera di ottobre aveva sfidato il diluvio per vederlo giocare contro Pelè.
Era la stessa bandiera che, un paio di anni dopo, portammo all’Olimpico per la sfida con la Lazio; arrivammo a Roma percorrendo gli ultimi chilometri a passo d’uomo, tante erano le macchine che invadevano l’autostrada; nessuno immaginava che proprio Boccolini ci avrebbe regalato la vittoria. All’ingresso non volevano che entrassimo con quell’asta così lunga; Paoluccio non si perse d’animo: mentre Alfredo nascondeva il drappo nei pantaloni, infilò lestamente il bastone nei suoi e insieme, sottobraccio, l’uno zoppicando, col palo che gli arrivava fin sotto l’ascella e, l’altro, sorreggendo il compagno, superarono il varco d’ingresso, a stento mostrando il biglietto ma reggendo con fare dignitoso gli sguardi impietositi dei poliziotti.
Quel giorno tutti pensammo che la conquista del primo scudetto fosse finalmente vicina e il coro “oj vita, oj vita mia” nacque dal nulla, lentamente, avvolgendo un po’ alla volta tutto lo stadio; all’epoca non c’era il tifo organizzato e forse, proprio per questo, fu un momento straordinario e commovente, del quale tutti fummo partecipi. Al ritorno Paoluccio, al culmine della felicità, esprimeva la sua gioia addentando panini e quel poco di frittata di maccheroni, ancora rimasta, che Anna ci aveva preparato prima di partire.
Sono anni che non lo vedo, eppure non riesco a dimenticare quel pomeriggio a Verona. Il Petisso era stato chiamato al capezzale della squadra per salvarla dalla retrocessione; dopo il rigore di Ferrario al Genova (che, per non vedere, aveva chiuso gli occhi e baciato la medaglietta che portava al collo), l’aveva rimessa in carreggiata; mancava però ancora un punto per la matematica salvezza. Ci incrociammo all’improvviso, diretti a settori diversi dello stadio; fui sorpreso a vederlo: Paolù, pure tu ccà; e lui, quasi meravigliato: e cchè!? ‘o lasciavo sulo, ‘o Napule?
Mimmo Taglialatela