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Il calcio è dubbio costante
e decisione rapida

Arìstides Reynoso era un personaggio del calcio a Valle del Rìo Negro ed entrò nel Platense che era ancora un ragazzino, nel cinquantadue, mentre Elvis faceva la sua apparizione sulle copertine dei dischi ed Evita moriva. In campo, Arìstides prendeva la palla e cominciava a fischiare. Fischiava canzoni contadine, cuecas cilene e qualche vidalita della sua terra natale. Dietro quella musica, certo, nascondeva una storia inconfessabile. Ho ricordato il suo incedere stanco durante una partita, nell’istante i cui el Gallego Gonzàles, con i suoi tentratre anni sulle spalle, segnò verso lo scadere del tempo il goal della vittoria del San Lorenzo. Poche ore prima aveva perduto il padre. In modo lento e doloroso, lo stava perdendo da quasi due anni, e la madre passava quasi tutto il giorno all’ospedale. Nel corso della sua vita in campo, el Gallego aveva segnato centocinque goal in non so quanti club e allora, a quell’età, aspettava una nuova occasione sulla panchina delle riserve. Veira lo fece entrare negli ultimi venti minuti ed ecco lì el Gallego, che non aveva dormito ed era arrivato poco prima dalla camera ardente, prendere di testa il primo passaggio decente che gli avevano fatto. Sono così le storie di calcio: risate e pianti, pene ed esaltazioni. Golzàlez corse con le braccia sollevate in alto per salutare la memoria del padre. Aveva le lacrime agli occhi e i suoi compagni piangevano con lui. Di quella pasta sono fatti i goleador. Fantasmi che vengono fuori da un posto qualunque. Arìstides Reynoso è stato uno di loro e io, che ho giocato con lui quando avevo diciassette anni, l’ammiravo così tanto che gli davo del lei, imitavo il suo modo di portare i calzoncini sotto la vita e i calzettoni legati con un nastro scarlatto. A volte, quando perdevo un contrasto con il portiere, mi veniva vicino e mi spettinava con le sue zampe da formichiere. Ricordo che una volta prese una palla mentre era di spalle alla porta, incalzato da uno stopper che lo seguiva dappertutto; non so come abbia fatto, ma con una capriola gli finì addosso, gli spaccò il naso e me la passò sul disco del rigore. Ho segnato, ma prima di entrare in porta la palla prese il portiere e poi la traversa. Il giorno dopo mi invitò in un bar per parlare, vicino alla fermata dei pullman, e mi raccontò che anche lui, da piccolo, avrebbe voluto affacciarsi alla finestra, ma trovava soltanto una persiana chiusa. Ma se uno impara a guardare, attraverso la fessura vede la luce, ragazzo – mi disse – falla passare di là, come passano le farfalle. Sì – gli dissi – ma come indovinare, come risolvere il dilemma del buio? Che cosa fare con la mia angoscia da cacciatore solitario?

Il calcio è dubbio costante e decisione rapida. All’improvviso un gesto maldestro sembra irreparabile ma la palla va e viene nel bene e nel male (….). arrivato alla prima divisione del Platense, Arìstides Reynoso se ne andò a vivere con una ballerina di calle Corrientes e cominciò a uscire di notte, a godersi Buenos Aires. Tirava mattina nei bar con la gente di teatro e un giorno lo trovarono che dormiva davanti a un’edicola. Ben presto perdette il posto di numero dieci nell’epoca in cui non c’era panchina e passò alla lunga insonnia della divisione riserve. Lì si ritrovò con personaggi ormai in declino, con quelli che sbagliavano i rigori e segnavano autogoal, con quelli che non avevano mai visto la luce passare nelle fessure della persiana. La cosa lo colpì nell’orgoglio: fece tanti di quei goal che nel giro di poco tempo tornò alle partite importanti (…). Fu a quel tempo, mi ha raccontato poi, che cominciò a fischiare in campo (…). Arìstides Reynoso aveva cominciato a guardare la vita di traverso. Non con cinismo ma con ironia. Aveva avuto tutte le donne, aveva cantato in duo con Edmundo Rivero e una volta, era l’alba e stava a El Tropezòn, aveva raccontato una barzelletta sporca a Sandrini. Allora disse a se stesso che era arrivata l’ora di fare le valigie, di segnare un goal indimenticabile e tornare al paese per giocare di nuovo sui prati.  La palla che gli allungò Maldonado arrivò verso di lui girando come gira la vita. La linea di attacco era chiusa perché c’era di mezzo el Pelado Pescia e soltanto Mourinho si stava facendo sotto. La tirò lunga, con un fischio da cueca e nessuno ebbe il coraggio di andarle dietro (…). Procedeva così entusiasta, Arìstides Reynoso, che riuscì a fare una doppia finta e inarcò il corpo per scavalcare Colman e fece partire la saetta che si sarebbe vista in tutto il paese. Ma Colman lo chiamavano Comisario e non era nato ieri. Appena ebbe indovinato l’intenzione dell’altro, lanciò un grido da assassino e gli si buttò di punta agli stinchi con i tacchetti. Arìstides riuscì a fargli passare la palla sotto il culo, ma la scarpa del Comisario gli portò via la carne fino al ginocchio.

Vari anni dopo mostrava con orgoglio la cicatrice e giurava di non  avere nemmeno aperto la bocca per lamentarsi. Non fece altro che rialzarsi e proseguire perché la gamba lo sosteneva ancora (…). Erano i tempi del Glostora Tango Club: uomini in giacca e cravatta e con la brillantina Brancato che stavano a sentire le chiacchierate di Discèpolo; signore e signorine con la gonna sotto il ginocchio. Un decennio insulso che preludeva alle tempeste che avrebbero cantato i Beatles e gli Stones. Conema, prosa alla radio, sale da tè, ippodromo, tango.. quanto bisognava aspettare prima che le ragazze si decidessero! Quanto amore e quanto odio risvegliavano Evita e Peròn! Tutto quanto questo, e Arìstides Reynoso che corre in area con le valigie fatte e il biglietto già pagato. Viene avanti un po’ malconcio e Mussimesi già mette fuori il carrello pr l’atterraggio, cade ai suoi piedi con la maglia e gli fa risaltare le costole. Ad Arìstides rimane da fare soltanto una cosa: frenare di colpo, alzare uno spiovente e andarla a riprendere, se mai ci arriverà, attraverso la fessura che si apre dietro il portiere. Sente un colpo al ginocchio, sa di che cosa si tratta, ma corre e prima di cadere per l’ultima volta in uno stadio porteno, colpisce di punta e chiude la valigia. Poi l’ospedale, il lungo viaggio nelle pampas con una gamba piagata e l’altra ingessata. Arrivò così alla stazione dove siamo andati ad accoglierlo: scherzava ed era pronto a giocare ancora sui prati. Ci mise due anni per riprendersi e un giorno ci siamo trovati nello stesso attacco, io che cominciavo e lui che aveva già accanto a sé il suo monumento. Poco tempo dopo mi ha raccontato della finestra e della fessura. In quell’infimo posto mi ha fatto mettere accanto a lui, senza parlare mai di pesi e misure, senza dirmi perché la palla rimbalza e inganna, rimbalza e obbedisce, va a cercare un brandello di luce anche se vive nel cuore delle tenebre.

Osvaldo Soriano, Fùtbol. Storie di calcio, Einaudi, 1983.

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